Monday, March 3, 2014

Discorso per la Cerimonia di Consegna dei Dottorati per l'area scientifica.Università di Roma Tor Vergata 27 Febbraio 2014


di Gianmarco Contino

Sono onorato di essere qui oggi. Per me ha un significato speciale poter tornare qui dopo qualche anno, rincontrare amici e colleghi cui sono sinceramente affezionato. E certo sono molto onorato di poter paralare a voi, che siete la punta di diamante della preparazione universitaria.
Se fossimo dall’altra parte dell’oceano quello di oggi si chiamerebbe “commencement speech”, discorso di inizio e non di fine. Cosi’ io voglio iniziare dalla fine e vorrei che i dottorati classe 2011 si alzino in piedi per un nostro applauso.
Congratulazioni.
E ora?
Cosa farete ora? Ora che l’universita’ vi ha insegnato tutto quello che poteva. Ora che avete mostrato di sapere come condurre una ricerca in modo rigoroso, presentarla, difenderla. Cosa farete ora?
Questo e’ davvero l’inizio. L’inizio del viaggio della conoscenza che avete intrapreso scegliendo di dedicarvi alla ricerca. Dove vi portera’? Chi e cosa sara’ la vostra stella polare, ora che non di una quida non avete piu’ bisogno?
La mia risposta e’ la seguente, e non e’ propriamente una risposta:
A quale problema volete dare una risposta? Qual e’la nuova pagina della conoscenza che avete deciso di scrivere? In definitiva la mia risposta e’ una domanda. LA DOMANDA. Ma non e’ poco, anzi e la cosa piu’ preziosa che avete. Perche’ ancor piu’della risposta che saprete dare, vi definira’ come scienziati e inevitabilmente come persone. Le vostre scelte professionali, e quelle personali saranno codizionate da quella domanda. Sara’ il filo rosso della vostra vita, il viaggio all’interno del quale intrecciare le complesse narrazioni che formano la trama unica di ogni esistenza umana.
Quindi fate in modo che sia la domanda giusta!
Che io non avessi una domanda su quale problema della biologia del carcinoma pancreatico volessi lavorare mi fu chiaro durante il primo meeting con il mio capo di Boston. Fu un disastro su tutta la linea. Non ero assolutamente preparato. Per uno strano retaggio enciclopedista, abbastanza diffuso per il mondo accademico, nessuno si pone il problema di insegnarci il capitolo piu’ sostanzioso della conoscenza umana, che non e’ cio’ che sappiamo ma e’ appunto quello che non sappiamo.
Alla fine di quel meeting, lui mi diede alcuni consigli e ci lasciammo con un appuntamento per la settimana successiva.
Solo che la settimana successiva, se possibile, ando’ anche peggio.
Mi chiese infatti cosa avessi fatto in quella settimana. E io, che avevo seguito pedissequamente tutti i suoi consigli, gli mostro i risultati.
Lui mi chiede, perche’ l’hai fatto?
E io, beh perche’ me l’ha detto lei!
e Lui : e che vuol dire?.
Ecco se imparare dall’errore serve a qualcosa a me e’ servito a comprendere che avevo bisogno di una domanda e avrei dovuto cercare la mia risposta in maniera indipendente.
Le domande sono i motori della conoscenza. E questo mi porta al cuore di quello che in questa sala ci accomuna di piu’ in questa sala e piu’ trasversalmente. Ed e’ l’ignoranza.
Ebbene si’ io sono ignorante. Ma non vi preoccupate. Lo siete anche voi. Direi che siamo appassionatamente ignoranti. Quello che ci accomuna e’ la non conoscenza, e la passione per l’ignoto.
Ci sono due domande che ogni ricercatore dovrebbe sempre tenere a mente.
La prima domanda e’ perche’ conosciamo? Ovvero perche’ facciamo quello che facciamo.
Sono sicuro abbiate in mente la cartina delle migrazioni dei nostri antenati.
200,000 anni fa (questo e’ a quando risale il primo fossile di H Sapiens), eravamo ai tropici, natura lussureggiante, acqua, mare, spiagge eppure qualcuno circa 60,000 anni fa ha deciso di partire per andare a vedere come si stava...in siberia.
Io la chiamo mutazione del gene esploratore, e onestamente non so cosa fosse nella testa del nostro antenato che si e’ imbarcato in quella spedizione. Ma se c’e’ un senso universale della storia che ci accomuna come generere umano, questo e’ quello del viaggio della conoscenza.
E certo questo programma genetico, evolutivamente vantaggioso per il genere umano, un po’ come il parto (lo sanno bene le donne in sala), non viene senza qualche mal di pancia. Ci sono stati giorni in cui mi sono sentito molto, molto vicino al mio antenato arrivato in siberia, lontano dalle proprie radici a dai miei personali tropici che sono alla latitudine del Gianicolo. Eppure, anche in quei giorni, non ho mai veramente dubitato delle ragioni della mia spedizione. Sebbene anche le persone che ci conoscono meglio possano a volte dubitare della bonta’ dell’impresa. Mi ricordo ancora di un giorno in laboratorio a Boston. Mia madre mi chiama un po’ preoccupata e mi dice, sai ho sentito il TG: ma tu esattamente cos’e’ che stai facendo? perche’ qui a Roma hanno scoperto la cura per il cancro.
Ma attenzione, la solitudine ha proprieta’ non locali come le particelle subatomiche, e ci si puo’ sentire ugualmente soli anche a 1o minuti da casa se non si ha la possibilita’ di realizzare le proprie idee e il proprio potenziale.
Ma dovunque sarete e deciderete di andare o rimanere, ricordate, siete cervelli alla ricerca, non in fuga.
Ho sempre evitato la definizione di cervello in fuga. Non per negare i gravi problemi culturali e ed economici che affliggono il sistema della ricerca in Italia e contro i quali vi invito ad essere in prima linea. Ma perche’ e’ un modo mistificante di guardarsi indietro a cio che si lascia e non vedere il vero motore che muove i ricercatori di tutto il mondo. Il segreto e’ infatti non nel trattenere ricercatori, ma nell’attrarne.
Voi siete l’ultima generazione di questa storia universale di cervelli alla ricerca. Siete l’ homo sapiens 3.0. E siete i piu’ privilegiati, perche’ dall’altra parte del mondo ci arrivate in 8 ore, o in tempo reale stando seduti davanti a un pc. Ma anche la generazione sulla quale gravano di piu’ le consequenze della rivoluzione digitale della conoscenza ed il nuovo umanesimo che dentro e fuori dalle universtita’di tutto il mondo vede una amplificazione esponenziale non solo della nostra conoscenza ma della nostra potenzialita’ di conoscere.
Dall’inizio della civilizzazione (5000 anni fa) al 2003 l’umanita’ a creato un totale di 5 exabyte (miliardi di gigabyte) di informazione. Dal 2003 al 2010 abbiamo creato la stessa quantita’ di dati ogni due giorni. E oggi, mentre vi leggo il mio discorso di 40 kbyte stiamo creando questa stessa quantita’ ogni 10 minuti. Per cui le notizie sono due: una e’ alla fine di questa mattinata avrete accumulato un centinaio di migliaia di anni di arretrato, l’altra e’ che vi aspetta il difficile compito di guardare oltre i fatti e di fare in modo che questa quantita’ di dati non ostacoli la vostra creativita’. Il successo di un ricercatore e’ spesso racchiuso nel vedere modelli e regole universali oltre i fatti.
E questo mi porta alla seconda domanda: come possiamo conoscere quello che non conosciamo?
Durante una delirante conferenza stampa nel 2002 Rumshfield per giustificare la missione in Iraq enuncio’ un concetto episemologico che e’ passato alla storia. Direi un superamento della epistemiologia socratica. Disse che ci sono cose cose note note, ovvero che sappiamo di conoscere, cose ignote note, ovver cose che sappiamo di non conoscere, e cose ignote non note, ovvero cose che non sappiamo di non conoscere.
Ma allora come conosciamo cio’ che non sappiamo di non conoscere? ovvero cio di cui oggi ignoriamo completamente l’esistenza.
A voi infatti, in particolare a chi si dedichera’ alle scienze sperimentali (ma non solo, visto che molto di quello che abbiamo scoperto sperimentalmente e’ una verifica di modelli matematici) e’ riservato questo privilegio. Quello di accendere la luce su mondi che non sapevamo di non conoscere.
Vi sono piu’ cose nel mondo naturale di quante immaginiamo. Cosi’ come fino a relativamente poco tempo fa nessuno immaginava l’esistenza di particelle subatomiche, certamente non Democrito che in fatti chiamo’ l’atomo, atomo, appunto indivisibile, e fino ad Einstein che in un bicchiere di acqua potesse essere racchiusa abbastanza energia per alimentare i fabbisogni energetici di una citta’ americana per un anno, e che l’universo, forse uno di molti multiversi, sia composto per la maggiorparte della materia invisibile a noi (la materia oscura).
E cosi’ quando guardo all’oncologia, ci sono oggi aspetti che ignoravamo completamente fino a pochi anni fa: l’interazione del sistema immunitario, l’epigenetica,la presenza di quantita’ massive di trascritti non codificanti, un sofisticato sistema di regolazione digitale che iniziamo ora a comprendere non attraverso la biologia ma utlizzando quello che le reti ci hanno insegnato. Ovvero che nei sistemi complessi esiste una sorta di intelligenzia distribuita dove i singoli elementi si organizzano in un maniera ordinata pur non sapendo quale sia l’ordine finale. E l’evoluzione tecnologica ha avuto un ruolo cruciale in questo. Quando ho iniziato allineavamo a mano sequenze di poche centinaia di basi, oggi possiamo avere l’intera sequenza di una singola cellula in 24 ore e per mille dollari. Ma ancora possiamo identificare composti organici con una precisione di una parte per il milione e identificare singole cellule tumorali in tempo reale attraverso bisturi intelligenti. E ogni previsione di cio’ che scopriremo impallidisce di fronte a quello che la natura tiene in serbo per noi.
Heisemberg defini’ la scienza come lotta contro il mistero, e quale arma abbiamo contro il mistero se non la verita’. Aderite alla verita’ sperimentale, come alla verita’ dei numeri, delle formule in cui, come aveve notato Galileo e Pitagora prima di lui, l’universo straordinariamente sembra essere scritto.  Al punto che una particella elementare come il bosone di Higgs fu scritto su una lavagana decenni prima che un esperimento da 7.5 miliardi di euro ne provasse l’esistenza.
C’e quindi una cosa a cui come ricercatori dovete credere, forse l’unica cosa per la quale la scienza vi chiede di fare un atto di fede: la verita’. Il fatto che esista una realta’, per le quali valgano leggi universali, che per quanto a certi livelli indecidibile e indeterminata e probabilistica, e’ vera ed esiste.
La fiducia nella verita’ deve accompagnarvi come scienziati, perche’ e’ l’unico strumento che avete per conoscere anche quello che ignoriamo addirittura di non conoscere.
Personalmente penso che uno scienziato debba declinare l’idea di verita’ in tre modi:
1) Verso voi stessi; conoscetevi. Siate coscienti del vostro potenziale. E’ la cosa piu’ preziosa che avete. Ancor piu’ di quello che avete fatto, conta quello che farete. E se confidate nelle vostre idee troverete la strada, fosse pure lunga e passasse per la siberia. Non scendete a compromessi sulle opportunita’. Fatelo sui soldi, sulla distanza, a volte, se serve, dovrete farlo sugli affetti. Ma non cedete al ricatto della mediocrita’.
Allo stesso tempo, conoscete i vostri limiti e lavorateci su, se non volete fare la fine di Einstein che poco prima di morire disse: “ah se solo avessi saputo piu’ matematica”. e penso che questa domanda faccia ancora passare notti insonni a parecchi fisici.
2) Verso gli altri, siate collaboratori onesti. Nelle fase cruciali della vostra vita, nei risultati migliori che raggiungerete, quello che contera’ saranno, piu’ che le pubblicazioni e il vostro potere personale, le persone a voi vicine e il supporto dei vostri collaboratori.
Ma siate anche i miglior coltivatori di talenti che conoscete. Il lavoro, ricordatelo, e’ il luogo della realizzazione umana. In particolare in una attivita’ cosi’ alta come la ricerca, nessuno puo’ tirarsi fuori da questa sfida. Perche’ e’ la sfida di una societa’ migliore. Questa sfida da oggi e’ sulle vostre spalle. Perche’ da oggi siete voi a dover sviluppare il potenziale degli studenti vicino a voi. Cercate di essere mentor eccellenti ed ispirati e in pochi anni avrete i collaboratori brillanti di cui avete bisogno.
3) Verso i vostri dati: rispettate la verita’ delle vostre osservazioni, mettetela in dubbio ma non approssimatela, non piegatela ai vostri bisogni e ai vostri modelli. Al contrario siate capaci di cambiare modelli. La realta’ e’ una fonte insauribile di conoscenza ed e’ il vostro unico capo. Siate indipendenti da tutto il resto, dalle gerarchie, e dalle contingenze. Siate rivoluzionari, se mettete solo l’esperienza di chi vi a preceduto a servizio di nuovi problemi, avrete solo vecchie soluzioni. C’e’ bisogno di un certa dose di incoscienza, direi di dilettantismo.
Pretendete il diritto di sbagliare. Perche’ e’ l’unico modo che avete di innovare. E la scienza non e’ solo un ordinato procedere di ipotesi, verifica e riformulazioni di ipotesi. Ma e’ una storia di errori, di procedere a tentoni ed incontri con interruttori nascosti che accendono la luce su mondi inesplorati.
Credere nelle vostre idee come ricercatori indipendenti, vuoldire anche cercare le vostre fonti di finanziamento, fuori e dentro l’universta’. Lamentatevi della mancanza di fondi, ma fatelo alla trentesima application. E ricordatevi che le opportunita’migliori per un medico sono probabilmente oggi in un laboratorio di ingegneria e per un ingegnere in una sala operatoria. Fate come Folkman, chirurgo scopritore dell’angiogenesi che nei sui primi anni da medico attraverso’ il Charles river che divide il Mass General di Boston dall’MIT. Ne torno’ indietro con un pacemaker in mano. Anche voi attraversate queste strade che dividono le varie facolta’, so per esperienza che e’ un po pericoloso, ma potrebbe valerne la pena. (E siete avvantagiati perche’il pronto soccorso e’ a portata di mano). E, a giudicare dai risultati, non ci sono soldi meglio sprecati di quelli nella ricerca. Nel 2012 le universita’ americane hanno guadagnato 2.6 miliardi di dollari dalle royalties delle companies create dai loro studenti, e questo e’ piu’ o meno il 5% di quanto guadagnato da quelle start up.
E ora, ora che l’universita’ vi ha insegnato tutto quello che aveva da insegnarvi, fate in modo di avere in mano la domanda giusta. E, personalmente, non vedo l’ora di conoscere  quale sara’ la vostra risposta.
Congratulazioni e buona fortuna.

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