Wednesday, February 22, 2017

Davvero un test della saliva può diagnosticare il cancro in 10 minuti?

Davvero un test della saliva può diagnosticare il cancro in 10 minuti? | Gianmarco Contino:



Presto sarà possibile fare una diagnosi di tumore al polmone in soli 10 minuti con un semplice test della saliva per meno di 25 dollari. Questa è la promessa del Prof David Wong della University of California at Los Angeles (UCLA), che da anni lavora sulla messa a punto di questo test.
I dettagli del test non sono completamente noti, ma, dal breve annuncio fatto alla American Association for the Advancement of Science, una delle più solide società scientifiche americane, si tratterebbe di un test in grado di rivelare la presenza di una mutazione di un gene (EGFR, recettore per il fattore di crescita epitaliale), responsabile della crescita incontrollata delle cellule tumorali. Sebbene l'accuratezza dichiarata sia del 100%, sono ancora necessari trial clinici prima che questo test divenga disponibile.
Qualsiasi sia la fortuna di questo test, è certo nei prossimi 5-10 anni disporremo di numerosi test non invasivi che vanno sotto il nome di biopsie liquide, che permetteranno di individuare il tumore o altre malattie in fasi iniziali. Aziende come Google e Amazon stanno investendo in queste tecnologie, con loro compagnie ad hoc, e molti laboratori in giro per il mondo sono concentrati nello sviluppare le tecnologie e conoscenze necessarie alla messa a punto di questi test.
La diagnosi precoce è, insieme alla prevenzione, una delle armi più efficaci contro il cancro. Nella maggiorparte dei casi infatti, i tumori in fase molto iniziale possono essere curati in maniera definitiva. Tuttavia, nessun test è perfetto, e bisogna evitare che risultati falsamente positivi portino a ulteriori indagini non necessarie, o, al contrario, falsi negativi finiscano per ritardare la diagnosi. Paradossalmente, alcuni di questi test rischiano di identificare il tumore prima che sia realmente identificabile, perché troppo piccolo, ponendo il problema di quale sia il comportamento più adatto in questo caso (e anche la reale utilità). Per questo test ad esempio, Prof. Wong suggerisce che venga utilizzato per confermare un nodulo sospetto alla radiografia del torace.
Le possibilità tecniche vanno quindi guardate sotto la lente dei reali benefici clinici che se ne possono ottenere. Il rischio è infatti quello di un eccesso di diagnosi o diagnosi in fasi non suscettibili di un trattamento medico adeguato. C'è quindi da augurarsi che questi test diventino presto disponibili e alla portata di tutti, ma che al contempo, medici e pazienti, imparino, sulla base delle evidenze cliniche, a soppesarne la reale utilità e fare scelte consapevoli sul loro uso.

BIOPSIA

So cosa pensi! La scienza dietro il sogno di leggere nella mente

So cosa pensi! La scienza dietro il sogno di leggere nella mente | Gianmarco Contino



Sebbene sia uno dei pochi al mondo capace di leggere la mente, Jack Gallant è un tipo molto alla mano. Colpisce il suo baffo anni '70, che stona con con l'aspetto da ragazzo in maglietta e felpa Northface che cammina in flip flops in un campus della west coast americana. Il suo sguardo si accende di fronte alle mappe colorate che vengono fuori da un particolare tipo di risonanza magnetica con la quale lui e il suo team studia quali aree del cervello si accendono mentre sentiamo una storia.
La speranza di leggere nel pensiero ha accompagnato l'uomo fin dall'origine della sua storia. Al contrario di maghi, sensitivi e stregoni, gli scienziati hanno avuto poca fortuna nel decifrare cosa si nasconde tra le pieghe del nostro cervello. Chi ci ha provato, come il famoso frenologo Franz Jhoseph Gall (1758-1828), ha creato mostri pseudoscientifici le cui conseguenze si trascinano ancora oggi.

La verità è che abbiamo iniziato a comprendere qualcosa di come il cervello funzioni solo recentemente. Basti pensare che la "teoria del neurone", l'unità di base che genera impulsi nel nostro cervello, fu proposta da Purkinye agli inizi del 1800 e solo alla fine del secolo lo spagnolo Cayal e l'italiano Camillo Golgi definirono alcuni dei meccanismi di base della trasmissione sinaptica che meritarono loro il premio Nobel nel 1906. A guardarlo da fuori il cervello sembra una spugna grinzosa, composta da una sostanza molle, grigiastra e perlopiù omogenea. Nel 1800, Pier Paul Broca, un anatomista e chirurgo parigino, notò all'autopsia di due suoi pazienti (Tan, dall'unica parola che era capace di pronunciare, e Leborgne) che lesioni di una particolare area del cervello di sinistra, causavano afasia, ovvero l'incapacità di parlare. Quell'area del cervello, che ora chiamiamo area di Broca è responsabile della attivazione motoria necessaria all'articolazione dei suoni ma anche alla sintassi che ne sottende il senso. Si pensa che si sia evoluta come una area super-specializzata originariamente deputata ai gesti che, come sanno bene gli italiani, sono una delle forme più consolidate di comunicazione. Altri dopo di lui definirono le aree necessarie alla comprensione dei suoni e alla loro trasformazione in linguaggio.

Suoni, e gesti sono pero' solo la facciata esterna del complesso universo semantico che vive nel nostro cervello. Esso è popolato di idee, concetti ed esperienze che sopravvivono all'incapacità di parlare o ascoltare e trovano la loro strada anche nel cervello di chi, fin dal concepimento è' stato privato di queste capacità. L'organizzazione dei significati è rimasto un problema elusivo che Gallant ha esplorato osservando, con una risonanza magnetica, i piccoli cambiamenti nel consumo di ossigeno del nostro cervello mentre ascoltiamo una storia. Generalmente questo tipo di esperimenti viene condotto con una quantità limitata di stimoli a causa della nostra capacità di isolare segnali specifici dai rumori di fondo dei numerosi processi paralleli che avvengono in ogni dato momento nel cervello.
La scommessa di questa ricerca è stata quella di decifrare l'immensa mole di dati che deriva da una esperienza reale come quella di ascoltare una storia intera (in questo caso un episodio di un famoso podcast americano chiamato "The Moth"). I risultati pubblicati sulla rivista "Nature" hanno mostrato che i significati non siano ristretti in una area specifica del cervello. Al contrario quasi tutta la corteccia di entrambi gli emisferi contiene significati organizzati secondo affinità semantiche e funzionali. A esempio la parola "madre", "famiglia", "donna" e "incinta" sono rappresentate insieme in nella giunzione temporale parietale destra del cervello vicino alla parola "casa", "marito" e "affitto". La parola "sopra" si ritrova in prossimità di abbigliamento, ma anche nell'area dei numeri e ancora in quella contente palazzi ed edifici. Così ancora le parole che contengono significati violenti si trovano in prossimità dei significati che riguardano le persone, parti del corpo e le interazioni sociali. Alcune pieghe del nostro cervello racchiudono inquietanti associazioni come quella tra madre, nascita e assassinio; amore e odio si avvinghiano nelle pieghe del nostro cervello esattamente come Freud aveva immaginato nella sua teorizzazione del complesso edipico. (Per chi si vuole divertire a trovare i significati nel cervello, gli autori di questo studio hanno messo a disposizione una mappa interattiva).
Non si tratta ovviamente di una mappa definitive, al contrario apre la strada a molte domande. A esempio, come cambia la mappa a seconda della lingua che parliamo? Come si genera variabilità interindividuale che permette a persone diverse di attribuire significati differenti ad uno stesso testo, immagine o situazione? Tra le varie domande che scaturiscono da questo studio aleggia forse una delle più intime aspirazione dell'uomo: potremo leggere la mente delle persone semplicemente analizzando segnali captati dal cervello? Molti scienziati pensano che questa possibilità sia ormai a portata di mano. In particolare, la nostra capacita' di decodificare l'attività cerebrale ha raggiunto risultati impensabili pochi anni fa. Certamente la pensa così Ian Burkhart che in un maledetto 10 giugno di 6 anni fa, vide la sua vita infrangersi contro un'onda sbagliata nelle spiagge del North Carolina che gli spezzò la schiena strappandogli via la capacita' di muoversi, camminare e giocare a lacrosse costruita dal suo cervello e dai suoi muscoli in 19 anni di costante allenamento. Tuttavia, come in un hard disk, i nostri dati non vengono quasi mai cancellati. Da quel giorno la nuova sfida del cervello di Ian e dei ricercatori dell'Ohio State University, è stata quella di trovare un modo di bypassare la cicatrice che impedisce alla corteccia motoria di Ian di trasmettere segnali ai muscoli. Dopo sei anni, un computer è stato finalmente in grado di decifrare selettivamente l'attività motoria del cervello di Ian e stimolare i muscoli del suo braccio permettendogli di afferrare oggetti, versare un bicchiere di acqua o suonare la chitarra.

L'accelerazione dell'integrazione tra macchine e corpo rappresenta la sfida evoluzionistica più grande degli ultimi millenni per l'uomo (qui, tristemente, devo precisare: per quella parte dell'umanità che non deve occuparsi di morire di fame e infezioni). Il cervello dovrà sviluppare alcune capacità e probabilmente abbandonarne alcune altre come sta succedendo alla capacità di orientamento che stiamo affidando sempre di più al GPS. Arriverà il momento in cui dovremo preoccuparci di difendere la privacy dei nostri pensieri più intimi e le nostre esperienze. Ma, come risponde Gallant a chi gli chiede se saremo in grado di leggere la verità nel cervello dei criminali, la realtà è che "le rappresentazioni del nostro cervello sono spesso non veritiere e foriere di errori o false percezioni", suggerendo estrema cautela nelle possibilità future di leggere nel pensiero. Per il momento, mi interessa pensare che, grazie ad una migliore conoscenza del nostro cervello, saremo in grado di liberare i pensieri e le azioni imprigionati nei cervelli colpiti da malattie e lesioni e di riconnettere alla vita lo straordinario universo che custodiamo nella nostra testa.




Brain-exit, la sfida della scienza per una società aperta

Brain-exit, la sfida della scienza per una società aperta | Gianmarco Contino

BREXIT



A Oxford il 70% dei cittadini inglesi ha votato per il "remain", a Cambridge la percentuale è stata del 74%. Se fosse stato per queste due città, sedi di due delle migliori università al mondo, oggi non discuteremmo di Brexit, ma del modo di facilitare gli scambi di persone e idee dentro e oltre gli attuali confini dell'Unione Europea. L'Oxfordshire è (da oggi è più appropriato dire era) una delle 10 regioni più ricche dell'Unione Europea, un primato che gli deriva anche dalla forte concentrazione di start-up ad alto contenuto tecnologico.
Circa il 30% degli abitanti dell'Oxfordshire è nata in paesi stranieri europei ed extracomunitari. Molti di questi sono di passaggio: studenti, ricercatori o lavoratori come me, che, in ogni caso, non hanno potuto votare il referendum per la Brexit. Nonostante ciò, anche il più isolazionista degli inglesi capisce che, in posti come questi, le facilitazioni burocratiche ed economiche dell'Europa Unita hanno permesso alle università e aziende di reclutare talenti formidabili provenienti da background e culture differenti. Una contaminazione che ha permesso a idee e progetti ambiziosi di fiorire e realizzarsi a beneficio della comunità locale e spesso del mondo intero. 

Le università inglesi si sono affrettate a rassicurare i propri affiliati sulle loro intenzioni di mantenere facilitazioni e promuovere la mobilità dei ricercatori, ma la realtà è che, a parità di talento, è più facile essere assunti in quanto cittadini europei che cittadini extracomunitari. La Gran Bretagna ha scelto, male. Ha lasciato la scelta in mano di anziani con una visione limitata e pessimista della storia. Inevitabilmente, nel lungo termine la Gran Bretagna pagherà la perdita del capitale umano ed economico che gli derivava dall'Unione Europeadai fondi di ricerca comunitaria e le collaborazioni promosse dai programmi di finanziamento europei. Molte aziende si guarderanno intorno alla ricerca di nuovi hub della scienza in giro per il mondo. La Brexit sarà una anche Brain-exit.
Karl Popper, un filosofo austro-britannico, scrisse che "la nostra civilizzazione non si è ancora ripresa dal trauma della propria nascita, ovvero dalla transizione da una "società chiusa" e tribale, soggetta a forze magiche, a una "società aperta" che libera le forze fondamentali dell'uomo". Le forze regressive e tribali sono sempre presenti e si fanno sentire maggiormente in tempi di crisi. Nel passato abbiamo osservato e velocemente dimenticato i cicli di isolazionismo, guerra e espansione che la visione dell'Unione Europea ha scardinato, offrendo 70 anni di pace, crescita e benessere.
La comunità scientifica ha contribuito al contenimento di queste forze irrazionali che nutrono le spinte isolazioniste di questa Europa un po' ammaccata e oggi è chiamata a giocare un ruolo politico per disegnare l'orizzonte di una Europa culla della razionalità e innovazione. Dobbiamo premere per la promozione della libera circolazione di uomini e idee, per la creazione di centri culturali con masse critiche tali da modificare l'economia di una intera regione, per riconvertire le attività economiche tradizionali in imprese ad alto contenuto tecnologico. In Italia penso a città come Milano e Pisa, già pronte a creare la spina dorsale del rinascimento europeo. Arti e scienze sono i soli alleati della società aperte e i numeri contro tendenza di Oxford e Cambridge lo hanno, con rabbia, gridato al mondo.

L'eredità di Umberto Veronesi: la scienza, l'etica, la dignità della persona umana

Gianmarco Contino:



VERONESI
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Il Prof. Umberto Veronesi è stato medico, filantropo, innovatore e intellettuale. È stato tutto questo insieme, in tutti gli istanti della sua vita. Come medico, negli anni '70, ha dimostrato attraverso uno dei primi trial randomizzati in Italia che, in molti casi, fosse possibile curare il tumore al seno attraverso una resezione limitata e senza ricorrere ad un intervento radicale e demolitivo.
Quella scoperta segnò un prima e un dopo dell'oncologia mondiale: dalla massima terapia tollerabile alla minima terapia necessaria. Sarebbe tuttavia riduttivo, limitare il significato di quello studio all'avanzamento di una tecnica chirurgica. Già in quello studio fondamentale, si delineano le direttrici del suo agire che, negli anni, lo vedrà impegnato su temi sociali ed etici, nella promozione della cultura della prevenzione e della ricerca scientifica.
Se, infatti, a segnare le sue ricerche sono il rigore scientifico e la razionalità, a guidare le sue intuizioni vi è un profondo rispetto per la dignità umana e per l'integrità fisica e morale dell'individuo.
Negli anni ha declinato questi principi nella promozione di una medicina costruita intorno al paziente: ha reso le terapie sempre meno invasive nel corpo e nella vita dei pazienti, ha ripensato orari e spazi degli ospedali, ha promosso la cura di sé intesa come approccio olistico alla salute che inizi dalla prevenzione e l'informazione prima ancora che dalle terapie.
Con coerenza ha sostenuto che l'integrità psicofisica dell'individuo dovesse essere onorata fino alla fine, rispettando le volontà espresse da ciascuno attraverso un testamento biologico. Nel senso più ampio possibile ha saputo interpretare il ruolo dello scienziato nella società civile infondendo il suo pensiero di fiducia nel progresso. Questa fiducia gli derivava dalla certezza che la ricerca della verità e il miglioramento della conoscenza siano intrinsecamente etiche e debbano essere messe al servizio di una società più giusta.
Ci lascia una eredità imponente e la responsabilità di continuare il suo lavoro come medici, scienziati e cittadini, nella lotta contro i tumori, nell'avanzamento della conoscenza e nella costruzione di una società più rispettosa della dignità della persona a partire dai più fragili.

Monday, October 19, 2015

"Medici umani, pazienti guerrieri. La cura è questa". In memoria di Gianni Bonadonna

Published on the Huffington Post on 08/08/2015

Gianni Bonadonna, medico oncologo milanese ci ha tristemente lasciato. Per il grande pubblico questo nome potrebbe non evocare molto, eppure sono in molti, donne e uomini in giro per il mondo, che devono a lui anni preziosi di vita.
Nato nel 1934 si laureò in medicina e chirurgia nel '59 a Milano. Dopo un periodo allo Sloan Kettering di New York tornò all'Istituto Tumori di Milano. Fu qui che, negli anni '70, condusse studi che rivoluzionarono le terapie del tumore al seno e il linfoma di Hodgkin e resero l'Italia un faro dell'oncologia Mondiale.
Furono anni gloriosi anche grazie alla collaborazione con Umberto Veronesi che nello stesso Istituto dimostrava come fosse possibile risparmiare a molte donne con il tumore al seno un intervento demolitivo e radicale come la mastectomia in favore di una quadrantectomia.
È proprio in quegli anni che le neoplasie del sangue e il tumore al seno diventarono il modello pionieristico che ci ha permesso di ripensare profondamente le terapia e le prospettive di cura e controllo del cancro a lungo termine. Ancora oggi, quel vantaggio non si è esaurito e i risultati ottenuti in questi campi ci rassicurano su quanto vedremo presto per altri, oggi meno curabili, tipi di tumore.
Gianni Bonadonna seppe dimostrare la sua grandezza anche quando, da paziente, si trovò a lottare con gli esiti di un Ictus. Le pagine della sua vita e dei suoi scritti ci consegnano molte lezioni; tra tutte la più importante è quella dell'unità inestricabile di umanesimo e medicina che il titolo di uno dei suoi ultimi libri riassume molto bene: "Medici umani, pazienti guerrieri. La cura è questa".

Sunday, March 15, 2015

Il sesto senso del medico del futuro? Questione di chimica

pubblicato sull'Huffington Post il 2/3/15


Se volete avere un assaggio di cosa la medicina del futuro tenga in serbo per voi, fate attenzione la prossima volta che attraversate la sicurezza di un aeroporto. E non mi riferisco alle file. Ogni anno in un aeroporto internazionale transitano milioni di persone. Nei pochi secondi in cui lasciamo la nostra borsa nella macchina dei raggi-X a quando la ritiriamo, è possibile sapere esattamente se siamo stati in contatto con sostanze stupefacenti o esplosive. Per fare questo, ancora oggi, la tecnologia più raffinata in cui vi capiterà di imbattervi è probabilmente un cane.
I cani sono infatti capaci di riconoscere la presenza di rare particelle dissolte nell'aria e decidere con la loro intelligenza se si tratta di una determinata sostanza, oggetto, o persona. La loro capacità è così raffinata che negli anni si sono accumulate evidenze scientifiche della loro capacità di riconoscere malattie o condizioni con anticipo rispetto alle nostre migliori tecniche diagnostiche.
Avrete notato anche che, accanto ai cani, è apparso da qualche anno un misterioso strumento che analizza in tempo reale un piccolo pezzo di tessuto passato sommariamente sulla vostra borsa. Quella scatola è uno spettrometro, una tecnologia in grado di rilevare parti per milione di narcotici o esplosivi emulando quello che i cani sono in grado di fare naturalmente. Molti scienziati si sono dunque chiesti se attraverso questo tipo di strumento potessimo replicare le magiche capacità diagnostiche dei cani identificando malattie ben prima che diventino clinicamente evidenti.
Queste ricerche hanno acceso l'interruttore su un linguaggio finora sconosciuto di composti chimici che affollano l'aria che espiriamo e i nostri fluidi biologici (sudore, sangue, urine etc). Migliaia di composti che raccontano la storia molecolare di quello che succede nel nostro corpo.
Recentemente una compagnia basata a Cambridge e chiamata Owlestone Nanothech Ldt, ha messo a punto un dispositivo in grado di misurare composti dissolti nel respiro di soggetti con tumore del polmone. Uno studio clinico è ora in corso per chiarire l'impatto di questa tecnologia nel diagnosticare precocemente il tumore al polmone, quando le chance di cura sono maggiori. Altri team di medici e ricercatori in giro per il mondo stanno analizzando indagando non solo il nostro respiro, ma anche liquidi organici come sangue e urina, nelle più disparate condizioni mediche (infezioni, malattie immunitarie, tumori etc). La difficoltà di mettere il naso, è il caso di dire, per la prima volta in questo mondo invisibile è che non sappiamo dire ad esempio se un composto sia specifico di una certa malattia, a che punto della malattia si presenti e quale sia la relazione causale con essa. Per fare questo serviranno anni di rigorosi studi clinici. Tuttavia è facile predire che l'evoluzione della tecnologia renderà questi dispositivi abbastanza piccoli da stare nello studio del nostro medico di famiglia o dal farmacista per un veloce check-up.
In un futuro un po' più lontano, è pensabile che questi sensori verranno integrati in telefoni, orologi, vestiti o toilette intelligenti e analizzeranno il nostro stato di salute senza che ce ne accorgiamo, avvisandoci se c'e' qualcosa che non va.
La diagnostica basata su spettrometria di massa e affini cambierà significativamente altri aspetti della medicina. All'Imperial College di Londra un gruppo di ricercatori ha messo a punto l'i-knife (letteralmente i-bisturi o bisturi intelligente) che analizza istantaneamente il i composti rilasciati durante il taglio dei tessuti e ci avverte se stiamo operando su un tessuto sano o normale. Ancora, Rohit Barghava ed il suo team al Beckman Institute dell'Università dell'Illinois (UIUC) sta invece utilizzando l'imaging spettrometrico per ricostruire biopsie virtuali senza bisogno di asportare alcun tessuto.
La sfida di test diagnostici più semplici, accessibili e meno invasivi è ormai iniziata e non c'è modo che non cambi il volto della medicina come la conosciamo oggi. Chiedersi se ci sia così bisogno di ipermedicalizzare le nostre è lecito e doveroso. Sottoporsi a più analisi non si tramuta automaticamente in un vantaggio clinico e può portare a trattamenti medici non necessari. Ci sarà bisogno di molta ricerca per capire quando sia utile eseguire dei test e, in base a quali risultati, prendere provvedimenti.
Altrettanto doveroso è però chiedersi se nel lungo termine non sia questa la strada per una "de-medicalizzazione felice". Per quanto tempo ci sarà ancora bisogno di affollare ospedali e ambulatori per sottoporsi a fastidiosi prelievi di sangue, esami radiologici o endoscopici? Quante persone, oggi, rimandano gli esami per paura o mancanza di tempo? E quanti di questi ritardi portano a diagnosi tardive con trattamenti lunghi e costosi? Spesso ci dimentichiamo che il compito della medicina è svuotare gli ospedali piuttosto che riempirli.

Cancro, la sfortuna è non saperlo


Pubblicato su Huffington Post il 6/2/15
Appena un mese fa ci veniva raccontato che il cancro è tutto questione di sfortuna. Con ancora i sensi di colpa per la non propriamente esemplare dieta natalizia, in molti non sono sfuggiti alla tentazione di leggere nel lavoro pubblicato su Science che una sorta di liberazione collettiva. Mangiare sano, muoversi o farsi controllare non serve a niente, se deve succedere, succede.
Il 4 febbraio abbiamo celebrato la giornata mondiale contro il cancro e senza troppe spiegazioni abbiamo ricevuto i rituali inviti alla prevenzione e a migliori stili di vita. Dov'è la verità?
Cristian Tomasetti e Bert Vogelstein, i due ottimi autori della ricerca pubblicata suScience a inizio dicembre, ci avevano raccontato una storia differente che è partita da una osservazione molto semplice: perché più facile avere un tumore del polmone o del colon rispetto, ad esempio, di un tumore del cervello?
Semplificando, possiamo considerare il cancro come una malattia del DNA. Il DNA e' una lunga elica di zucchero e azoto che che contiene le informazioni di base per costituire le nostre cellule. Una macchina quasi perfetta fa in modo che il DNA venga copiato con una quantita' minima di errori (circa 1 su miliardo). Negli ultimi anni abbiamo imparato che le cellule tumorali accumulano un numero straordinario di errori (mutazioni) ed evolvono acquisendo caratteristiche di maggiore malignita' e di resistenza ai trattamenti disponibili.
Come e' possibile quindi accumulare tanti errori tutti insieme? Alla base ci sono due meccanismi principali. Il primo e' costituito da fattori ambientali: stile di vita, fumo, obesita', raggi ultravioletti, virus, batteri possono indurre mutazioni o interferire con i meccanismi di controllo e riparo del DNA, contribuendo allo sviluppo di specifici tumori. Il secondo meccanismo e' legato ai geni: ognuno di noi eredita' un diferente patrimonio genetico che puo' predisporre o meno ad alcuni tipi di tumore.
Tuttavia ambiente e predisposizione genetica non sono sufficienti a spiegare perche' sviluppiamo tumori. A giocare un ruolo significativo sarebbe, secondo questa ricerca, principalmente il caso, ovvero l'accidentale accumulo di mutazioni che si verifica ad ogni ciclo di replicazione cellulare. Per testare questa ipotesi gli autori hanno stimato il numero di divisioni cellulari delle cellule staminali per ogni tipo di tessuto e osservato che li' dove le cellule si replicano piu'velocemente (come nel colon o nel polmone) sia piu' facile avere tumori dei tessuti dove le cellule si dividono piu' raramente (come appunto il cervello)
Quali conseguenze ha questo studio sulla prevenzione e cura dei tumori? Cosa possiamo fare contro la sfortuna di accumulare le mutazioni sbagliate con il passare degli anni?
Ci sono almeno due lezioni che possiamo imparare. La prima è che avere "buoni geni" non ci mette al riparo dai tumori. Se ad esempio i nostri genitori non hanno avuto tumori nonostante stili di vita sbagliati, questo non ci rende immuni da questa malattia e maggior ragione è necessario fare in modo di ridurre il più possibile il peso della "cattiva fortuna" attraverso prevenzione e stili di vita adeguati.
La seconda e' che, invecchiando, e' necessario rimanere vigili attraverso i programmi di screening e semplici controlli suggeriti per la fascia d'eta' perche', se la "sfortuna" capita proprio a noi, possiamo giocare d'anticipo e fare in modo di eliminarla all'inizio quando le possibilita' di cura sono maggiori. Non stupisce infatti che, negli anni 80, fu proprio Vogelstein il primo a definire una precisa progressione genetica da adenoma (un polipo benigno) a carcinoma (il tumore vero e proprio) e che e' alla base del razionale degli screening del tumore del colon.
Gli ultimi dati ci dicono che una persona su due si ammalerà di tumore nel corso della propria vita. Allo stesso tempo la diffusione dei programmi di screening e il miglioramento delle terapie fanno del tumore una malattia dalla quale sempre più si guarisce o sopravvive per molti anni. Secondo il British Medical Journal il 42% dei tumori è attribuibile a fattori ambientali. Il fumo da solo sarebbe responsabile del 19% dei tumori (circa 60.000 nuovi casi ogni anno solo nel Regno Unito).
Le conseguenze di questo studio supportano quindi l'importanza di una attitudine positiva verso migliori stili di vita e una equilibrata cura del proprio corpo che vale in particolare per quei tumori in cui il caso sembra pesare di piu'.
Infine, aggiungo, c'e' un quarto fattore sul quale possiamo agire: e' la conoscenza dei meccanismi che contribuiscono allo sviluppo e progressione dei tumori. La "sfortuna" in fondo e' spesso solo il nome che diamo alla nostra ignoranza.
Il lavoro originale pubblicato su Science lo trovate su:
Variation in cancer risk among tissues can be explained by the number of stem cell divisions
http://www.sciencemag.org/content/347/6217/78.abstract
Questo articolo e' stato commentato sulle pagine di Science da altri team di ricercatori:
Cancer risk: Prevention is crucial
http://www.sciencemag.org/content/early/2015/02/04/science.aaa6462.full
Cancer risk: Tumors excluded
http://www.sciencemag.org/content/early/2015/02/04/science.aaa6507.full
Cancer risk: Role of chance overstated
http://www.sciencemag.org/content/early/2015/02/04/science.aaa6799.full?sid=f988c539-8c70-415d-b232-1cc3e89ddc32